“Quando un paese dell’Eurozona smette di implodere, si grida subito alla ripresa economica” Alberto Bagnai, gr1 del 30.10.2015
Il governo italiano ama vendere i processi, anziché i risultati. E’ uno dei mantra della gestione mediatica della vicenda politica: si evitano i contenziosi, si smussano le asperità, si negano le evidenze, si vendono illusioni. Adesso è diventato di moda sostenere che siamo in ripresa economica: sia Renzi che Padoan accreditano tassi di crescita per fine anno che superano le aspettative degli enti internazionali deputati a fare previsioni. La disoccupazione starebbe calando (all’11.8% ci dicono) e l’occupazione starebbe salendo (anche come qualità), nonostante i 180.000 posti di lavoro messi a rischio dall’allarme insaccati e carni rosse. La legge di stabilità sarebbe persino di segno espansivo, con il preventivo via libera di Bruxelles. Non mancano avvertenze di segno correttivo: il governo sta lavorando bene, secondo Confindustria, ma le richieste sindacali sono irrealistiche e quindi l’accordo impossibile, perché i salari sono cresciuti troppo, più della produttività, e quindi i margini competitivi delle imprese sono a rischio. Quest’ultima nota del Centro Studi Confindustria è davvero curiosa, soprattutto se la si esamina nel dettaglio e si tirano fuori gli elementi di palese falsità: come si fa a sostenere che i salari sono cresciuti? In realtà a salire è stato il costo del lavoro, che include varie voci (tasse, contributi, Irap) che con il salario netto non c’entrano. Si scopre così che dal 2010 al 2014 il CLUP è salito del 6,5%, ma i salari netti solo del 2,6%: il ritorno della quota del prodotto destinata ai salari ai livelli degli anni ’70 è una pura invenzione, che cela in realtà un aumento della pressione fiscale sulla paga dal 19% al 22% ed altre cose brutte che hanno in realtà ridotto pesantemente il reddito disponibile.
D’altronde la falsificazione della realtà è molto diffusa. Pensiamo alla legge di stabilità che è stata venduta come un taglio delle tasse di 19.8 miliardi: in realtà Renzi ha solo procrastinato lo scatto dell’aumento su Iva e addizionali varie, che avrebbe portato, dal 2016, circa 16.8 miliardi di tasse in più sui consumi. Ha venduto come taglio una cosa che non esiste. Peraltro questa cosiddetta “clausola di salvaguardia” scatterà nel 2017-2018, per almeno 30 miliardi, se gli altri obiettivi non venissero raggiunti (l’Eurogruppo non dimentica…). Di concreto invece ci sono 2 miliardi di tagli alla sanità, che diventeranno 15 nel triennio 2017-2019: un attacco frontale ai livelli minimi di assistenza che sinora erano stati risparmiati dalla scure dell’austerity.
Di sicuro restano sotto schiaffo i dipendenti pubblici, fermi al contratto del 2009, che vedono investiti 200 milioni di euro da spartirsi in tre milioni di addetti, circa 5 euro lordi al mese ciascuno. Un bel contributo alla ripresa dei consumi!. Decisamente più ben visti i proprietari di case di lusso, che dovrebbero risparmiare in media 3.000 euro all’anno a testa. Anche le imprese potranno fare fronte all’increscioso incremento del costo del lavoro con provvedimenti ad hoc: aumento del 40% degli incentivi fiscali ad investire, riduzione dal 27,5% al 24% delle tasse sugli utili societari (questo però dal 2017, se l’UE non ci riconosce subito 3 miliardi di flessibilità in più per gestire i migranti). Questa clausola di flessibilità UE è peraltro molto elastica: il governo si aspetta 14 miliardi di euro di “flessibilità UE”, che in sostanza equivale all’autorizzazione ad indebitarsi di più. In pratica è nuovo deficit: il modo con cui il governo si propone di finanziarie la sua legge di stabilità “espansiva”. Una grande fantasia, non c’è che dire.
Ma tutto questo elaborato meccanismo per vendere fuffaglia, e intanto riproporre camuffati tagli lineari e riduzione dei servizi, in che contesto va inserito? Serve davvero a galleggiare e intanto agganciare la ripresa economica? Ci sembra lecito dubitare al massimo grado…
A livello globale si teme il ritorno della recessione: dopo il biennio nero 2008-2009 (crisi della finanza post-Lehman), c’è stato il biennio nero 2011-2012 (crisi dei debiti sovrani); adesso si teme un altro ciclo di caduta legato al fallimento delle politiche ultra-espansive. Il Quantitative Easing Usa, Japan, U.E., non è bastato a imprimere nuovi ritmi di sviluppo. Draghi sta pensando di espanderlo, in quantità e durata, ma la liquidità serve solo a tenere su i mercati ed alimentare bolle finanziarie pericolose, senza toccare nulla delle variabili reali. Dopo l’estate sull’ottovolante, per la Grecia, la Cina e la Volkswagen, ottobre è stato un mese di ripresa, per i motivi più irrazionali: dato che gli emergenti sono in crisi, che la ripresa Usa è più debole del previsto e che la locomotiva tedesca arranca, è probabile che il rialzo dei tassi si allontani, e allora abbiamo ancora qualche giro di giostra, pagato dalle banche centrali, per farci i cavoli nostri sui mercati speculativi (diciamo fino a Pasqua?). Approfittiamone…
Del resto dalla finanza arrivano segnali di pesante scricchiolio e/o di motivato allarme. La principale banca tedesca, la Deutsche Bank, affonda sotto il peso di 6 miliardi di perdite ed una massa di derivati in portafoglio pari ad almeno 20 volte il Pil tedesco. Le multe arrivate da ogni dove, per partecipazione attiva e immancabile ad ogni sorta di manipolazione di tassi/cambi/commodities sui mercati internazionali, hanno finalmente svelato il trucco: adesso rischiano di pagare con il proprio posto di lavoro 35.000 dipendenti, vittime della decisione di chiudere bottega in 10 paesi, dalla Scandinavia all’America Latina. E tutto questo in un periodo in cui tutto il resto del sistema bancario, sovvenzionatissimo dai governi, ha recuperato utili stratosferici che l’hanno fatto ritornare ai fasti pre-2008.
Non è così per tutti, naturalmente. In Italia ad esempio abbiamo 7-8 banche, più o meno piccole, sull’orlo del collasso per le pratiche disinvolte con cui hanno aggirato o violato le leggi, dello stato e del buon senso. Banca MPS, Carige, Banca Marche, Spoleto, CR Ferrara, Tercas, da ultime anche Veneto Banca e Popolare di Vicenza, comportano aumenti di capitale sanguinosi, che rischiano di costare al contribuente italiano almeno 12 miliardi di euro. La ciambella di salvataggio sarà, presumibilmente, “interna” al sistema, cioè sarà lanciata dalle banche “sane”, le quali poi passano alla cassa, facendosi restituire dal governo il favore sotto forma di provvedimenti adeguati, in grado di sfuggire alla mannaia europea sugli aiuti di stato. Intanto prosegue a ritmo accelerato il processo di alienazione del patrimonio industriale e infrastrutturale domestico. Il 5 novembre verrà delistata Pirelli, comprata dai cinesi. Un gioiellino tecnologico come Ansaldo Sts, forte nei segnalamenti ferroviari di metro e treni, sta passando di mano, per finire all’Hitachi Rail. La madre di tutte le privatizzazioni, Telecom Italia, è per l’ennesima volta sotto attacco: dopo essere stata scalata da Colaninno e Gnutti (1999), poi ceduta a Tronchetti Provera e Benetton (2001), venduta nel 2007 a Telco (Intesa Sanpaolo - Mediobanca – Generali – Benetton – Telefonica), poi ceduta a Telefonica (2013), infine lasciata libera di diventare public company è ora obiettivo target dei francesi di Vivendi (Vincent Bollorè) e di Xavier Niel, che insieme hanno, al momento in cui scriviamo, oltre il 35% del principale operatore telefonico italiano, nonché proprietario esclusivo della rete, ex-pubblica.
Sempre per restare in tema di privatizzazioni, siamo reduci dall’operazione Poste Italiane, il primo datore di lavoro nazionale, dopo lo Stato, con 140.000 dipendenti. Operazione riuscita grazie alla precettazione del sistema bancario italiano, “comandato” a collocare sul mercato il suo principale concorrente, con un prezzo che ha portato 3.4 miliardi di euro allo Stato, un risultato davvero essenziale (ridurre dell’ 1,5 per mille il debito pubblico, che ammonta a circa 2.2 trilioni di euro, di quanto cambierà il nostro futuro?).
I risparmiatori sono stati regolarmente puniti: da 6.75 euro il prezzo dell’azione è calato in pochi giorni del 5%, vanificando sin da subito il teorico vantaggio di averne gratis 1 ogni 20 per chi le tiene un anno. Ma, si sa, l’investimento azionario va visto nel lungo periodo…
Peraltro anche i soggetti “sani” e privati, chiamati nell’occasione a dare una mano, qualche scheletro nell’armadio ce l’hanno: Unicredit, per dirne una, ha un vicepresidente indagato per favoreggiamento di imprenditori in odore di mafia e intanto studia di ridurre gli organici di 12.000 addetti, tra Italia, Germania, Austria e Ucraina.
La ripresa starà anche arrivando, l’Expo ci lascerà energie positive, il made in Italy piacerà sempre di più, ma per adesso sembra appannaggio di multinazionali estere che fanno shoppping di imprese tricolori. Del resto il paese ha le qualità per piacere: si offrono lavoratori a basso costo, a cartellino zero, diritti inesistenti e regole d’ingaggio totalmente flessibili. Ci sono ancora vincoli, è vero, ma il governo sta semplificando e sta per risolvere il problema togliendo quello che è rimasto. E’ solo questione di tempo, ma di poco tempo, vedrete… Comprate subito e non vi pentirete!
Renato